Scateni. Buste da mangiare


Articolo pubblicato il: 10/12/2016 15:55:33

Il mondo è uno sconfinato territorio della contraddizione. La prima, intollerabile, rappresenta tragicamente gli eccessi  di ricchezze accumulate quasi sempre con operazioni illecite e raramente con strumenti economici non imputabili. In casa nostra ci trasciniamo dietro il deforme progetto di rinascita partorito in uscita dal disastro della guerra in cui ci ha trascinato la megalomania paranoica di Mussolini, ma ancor prima dall’esodo della gente del Sud costretto  a lasciare le attività agricole, con il miraggio americano di una vita più umana. L’emigrazione in massa di quel tempo ha vissuto una fase due allorché il Nord re-industrializzato degli anni 50 ha chiesto al Sud braccia forti per le catene di montaggio e per saziare la fame di manodopera delle fabbriche in ripresa. Uno  sguardo alle trasformazioni febbrilmente epocali, a questo esordio del terzo millennio, propone stupefacenti anomalie. Una colpisce più di altre e parla l’indiano. Il Paese di Ghandi è uno dei principali paradigmi dell’ingiustizia umana, quella che rapina preziose risorse dell’Africa e non solo e la tiene in regime di ardua sopravvivenza secondo il maledetto principio del “mors tua, vita mea”. L’India, vista da uno spaccato rivelatore, è luogo che genera menti eccelse, per esempio nel territorio avveniristico dell’informatica ma è anche suburra che non alza un dito per rispondere all’indignazione di chi denuncia la miseria estrema di uomini  e donne che provano a non crepare di fame e di malattie nelle aree marginali delle città, ignorati, tenuti in vita dall’elemosina. Poi c’è Ashwath Hedge, mente superiore, venticinque anni, inventore, emigrato nell’opulento Qatar, consulente per l’ambiente. Ha lavorato al progetto di produrre un materiale alternativo, chissà, forse perché indignato dal disastro dell’ indistruttibilità della plastica, dalle gigantesche isole di quel materiale inquinante, eterno che navigano negli oceani. Il giovane indiano, ha lavorato sull’ipotesi di produrre buste e altri materiali di plastica con materie prime della natura: patate, tapioca mais, amido, olii vegetali. Il risultato è un  prodotto non inquinante che dopo quattro mesi di vita si autodistrugge, che può essere eliminato in acqua bollente o bruciato senza effluvi maleodoranti, né dannosi. La risposta agli scettici sulla composizione vegetale delle “Bust Hedge” l’ha fornita l’inventore seduta stante. Ha sciolto la busta in acqua calda e ha ingoiato il liquido risultante. Tutto perfetto? Almeno per il momento c’è un problema costi. La busta dell’indiano costa il 35% in più di quelle in plastica, ma la salvezza del mondo minacciata dalla plastica, derivato principe del petrolio, giustifica il costo maggiore, in attesa che si apra la concorrenza tra produttori che abitualmente incide positivamente sui prezzi.
Luciano Scateni