SCATENI. I Brancaleone del “venexit”


Articolo pubblicato il: 08/12/2016 12:27:23

Si chiama Barbisan, Riccardo Barbisan e in sintonia con il cognome cavalca la moda dei barbutos, anche se con moderazione, come mostra la foto allegata. Egli è paladino di una crociata molto somigliante all’armata Brancaleone di Monicelli, capeggiata dalla Lega e dalla destra. I “nostri”, usando  a piene mani la maggioranza in consiglio regionale, hanno detto sì a un disegno di legge che rivendica alcune cosette per il Veneto, ridefinito minoranza nazionale: appartenenza etnica a una razza extra italiana, insomma a un enclave estraneo al Bel Paese; un patentino di bilinguismo, cioè di una lingua propria, come se il veneto non fosse uno dei venti dialetti di altrettante regioni e la concessione ad affiancarlo all’italiano di Dante; la riconversione dei docenti delle scuole di ogni ordine e grado che dovrebbero insegnare il veneto (si immagini con quale arduo riciclaggio per  maestri e prof  meridionali, trasferiti a Venezia, Padova e dintorni); l’uso del dialetto in sedi istituzionali e pubblici uffici; per non farsi mancare nulla anche le insegne con le indicazioni stradali in veneto. L’incredibile vicenda ha un suo lato non  palese, nascosto dietro i titoli espliciti del disegno di legge regionale. Lo svela la parte finale della risoluzione allorché avanza la richiesta perentoria di ottenere risorse finanziarie, “schei” per dirlo in veneto, come il Sudtirolo e il Trentino.  Lo spiega con lucida chiarezza lo scrittore  Massimo Carlotto, veneto doc. Mette in dubbio la costituzionalità del disegno di legge che con un termine di moda, dopo il recente referendum britannico, si potrebbe etichettare come Venexit. Si chiede Carlotto, ma quale veneto?  Non è unico, ma si differenzia tra padovano, veneziano, eccetera. In verità, spiega lo scrittore, l’obiettivo leghista e della destra è di ottenere vantaggi tributari secondo quanto stabilisce il Consiglio d’Europa per le minoranze storiche. E la Campania, la Sicilia, la Sardegna, tutte le altre regioni italiane, non si riconoscono in minoranze storiche, ma inglobate come il Veneto nello Stato italiano grazie all’unità nazionale? Incuriosisce, del dispositivo leghista-destrorso il diktat del Doc, denominazione d’origine controllata, richiesto per iscrivere all’anagrafe virtuale dei promotori il suddito del mini  reame veneto e cioè il cosiddetto patentino. Fosse richiesto a Carlotto, che più veneto di così non si può, la risposta è sorprendente (lo dice a la Repubblica):  “Non l’otterrei. Non parlo più il dialetto da quando bambino lo ascoltavo a casa da mio padre”. La domanda che lo scrittore si fa subito dopo è se veneto sia quello dei Dogi che tra l’altro si servivano del latino per l’ufficialità delle loro esternazioni  o quello degli emigrati in Argentina esclusi logisticamente dall’adozione nazionale dell’italiano. Se c’è ambizione autonomista nel retroscena del disegno di legge leghista: quasi certamente sì, a rimorchio del brexit della May, delle avance secessioniste della neofascista francese Le  Pen, del tronfio Salvini.

Luciano Scateni